Storia tessile al macero. I sommersi e i salvati

Articolo tratto da: La Provincia - Domenica 24 Febbraio 2013 

 

Delle migliaia di faldoni della Ticosa quasi niente resta della Pessina e della Bernasconi: così s'è persa la memoria industriale del territorio

di VERA FISOGNI

Bisogna ringraziare un ex operaio comasco se ancora ci resta qualcosa della storia della Ticosa, la più celebre tinto-stamperia lariana, chiusa nel 1982 dopo 111 anni di attività. Perché se non  fosse stato per l'intuizione di Luigi Basso di conservare circolari aziendali, prima, e di raccogliere qualche fascicolo, poi, una volta chiusa la fabbrica, non avremmo più alcuna memoria d'archivio di quella stagione industriale.

«Già prima che la Ticosa chiudesse, ho cominciato a racimolare un po' di carte. All'epoca facevo parte del consiglio di fabbrica - spiega Basso - Anche altri lavoratori fecero lo stesso. Era come un modo di conservare parte della nostra storia». Poche carte, per ora in cantina. Grazie a questa libera iniziativa l'Istituto per la storia contemporanea "Pier Amato Perretta" dispone dell'unico frammento di archivio cartaceo della Ticosa (Tintoria Comense Società Anonima), di cui si abbia notizia. In cantina, in attesa di riordino e catalogazione, abbiamo potuto contare 17 faldoni, relativi a un arco temporale che oscilla tra gli anni Trenta e gli anni Ottanta del Novecento comprendenti materiali molto vari, dai verbali di direzione ai ciclostili dell'ultimo decennio, quando la tinto-stamperia affrontò la contrazione dei suoi organici («a inizio anni '70, eravamo circa 1100 lavoratori, 1250 negli anni '50). Tuttavia, si tratta di ben poca cosa, rispetto all'archivio originario, che occupava «un intero piano dell'edificio a U» e doveva conservare decine di migliaia di fascicoli. Secondo Edy Pelloli, decana degli stilisti comaschi, che lavorò come dirigente in Ticosa per 13 anni, nell'ultima fase dell'azienda, «le varie divisioni possedevano ciascuna un proprio archivio ». Quanto sia vasto il «lutto

culturale di questa perdita», per usare le parole di Magda Noseda dell'Archivio di Stato di Como, si può facilmente intuire. Risulta impossibile, in assenza delle schede personali, ricostruire la storia sociale, fatta dalle generazioni di comaschi, che lavorarono alla tinto-stamperia. Né il capitolo degli scioperi del 1944, che costò la deportazione di alcuni operai (tra i quali, Ines Figini, arrestata per aver difeso i colleghi). Per non parlare dei tessuti, realizzati prevalentemente per conto terzi (ad esempio i celebri fiori di Ken Scott, di cui resta un rullo al Museo della seta), dal momento, come ammette Basso che «sono stati buttati al macero tutti i campionari».

 

La fine dell'Archivio Bernasconi

Per ironia del destino, proprio mentre i Beni Culturali focalizzano l'attenzione agli archivi industriali e di moda, sul Lario non abbiamo più documenti relativi ad uno dei primi gabinetti di chimica tessile, in cui si producevano brevetti come la "nuera", uno speciale procedimento per la brillantezza delle stoffe o si sperimentavano tecniche all'epoca all'avanguardia, come la cinzatura. Possibile che nessuno abbia pensato, solo venti, venticinque anni fa, che in quei faldoni stava la memoria della città? Oltretutto, a peggiorare il quadro, dobbiamo tener presente che s'è perso pure l'archivio delle Seterie Bernasconi di Cernobbio, assorbite (con la Colora) dalla Ticosa. Per certo, già nella seconda età degli anni Ottanta, dei preziosi materiali tessili e storici non restava gran che. «Chiesi al Comune il permesso di entrare nell'edificio, per recuperare qualcosa - ricorda Bruna Lai, la fondatrice del Museo didattico della Seta - Trovai una cassetta di "planches" favolose, e vidi buttato in un angolo un quadro da stampa. I campionari tessili? Non c'erano

già più». Parte di quelle tavolette di legno inciso, la cui funzione era di imprimere un colore alla volta sulla seta, fino a comporre la cromia del disegno, si trova esposta al Museo. In qualche modo, anche questo spazio visitato da migliaia di turisti ogni anno, nasce per un caso e per l'iniziativa personale della signora Lai, il cui bisnonno Gaetano Pessina diede inizio ad un'intensa attività industriale, poi divisa tra i due rami di famiglia, tra il Borgo Vico (Bruno Pessina) e via Castelnuovo (Ambrogio Pessina). «Se ci penso, abbiamo fatto il Museo salvando i macchinari e i campionari, circa duemila, che altrimenti sarebbero andati al macero», ricorda. «Fu mia cugina, nell'85, a invitarmi a vedere la fabbrica per l'ultima volta. Chiesi se potevo portar via le macchine. Si innescò ben presto una gara di solidarietà, a partire dal comitato della mia classe, con il sostegno dell'allora preside Grassi del Setificio, che diede i locali dello scantinato per farne il museo».

 

Un ritrovamento fortuito

L'intuizione di Bruna Lai era fondata. Poco tempo dopo, all'inizio degli anni Novanta, le carte della "Pessina" caddero al suolo con i calcinacci. Restano, a titolo di testimonianza, alcune immagini del fotografo Gin Angri: ne pubblichiamo una, assai eloquente, in cui si vedono le matasse seriche affiorare tra gli inerti. «Ma già a metà anni '80» ricorda Guido Ambrosini, già dirigente della Ticosa e tra i promotori del Museo, «l'archivio documentario non c'era più. Non lo trovammo». Per una memoria sostanzialmente cancellata - ma la perdita riguarda molte altre industrie tessili che hanno smetto di produrre (es: nulla si sa riguardo alla Fisac o alle Seterie Rosasco) - vale la pena citare almeno un episodio virtuoso, sebbene sempre legato al caso. Nel 1982, nella soffitta dell'Archivio di Stato, in seguito al sopralluogo dei Vigili del fuoco, vennero alla luce pezze, disegni, campioni prodotti per Dior, Givenchy, Chanel dalle Seterie Costa, a cui era appartenuto lo stabile e lì stipate fino dal 1964. Un ritrovamento così prezioso rese possibile la suggestiva mostra di Villa del Grumello promossa con la Fondazione "Antonio Ratti" nel 2010.

 

«Negli scatti il dovere di ricordare le radici»

Mi trovai a documentare, con la macchina fotografica, l'abbattimento della Tintoria Pessina di via Castelnuovo, all'inizio degli anni Novanta. Non ricordavo con precisione come lo smantellamento dei muri avesse portato alla distruzione dei documenti tessili. L'ho potuto constatare, proprio grazie a un archivio: il mio. In una foto è ben visibile lo schedario dei filati tra le rovine. In un altro scatto ho ritrovato qualcosa della Ticosa: nell'ex tinto-stamperia ormai dismessa, avevo fotografato i cartellini degli operai da timbrare all'inizio del lavoro. A quali considerazioni mi portano queste brevi riflessioni? Penso, da un lato, all'importanza degli archivi perché danno conto di fatti che la memoria umana può dimenticare. In secondo luogo, il lavoro di documentazione, di archiviazione e di gestione della memoria resta una delle funzioni principali dell'immagine fotografica, prima che altri fuochi artificiali ne cancellino anche il ricordo collettivo. Tra i sommersi e i salvati della memoria comasca, il caso forse più singolare, noto soltanto agli addetti ai lavori è però un altro, quello del salvataggio fortuito della storia della famiglia Natta. I Natta destinati al macero «Erano gli anni Novanta - ricorda Magda Noseda - Due studentesse milanesi del professor Stefano Della Torre stavano facendo ricerche a Palazzo Natta. Videro sparse malamente, in solaio, una quantità di carte. Altre stavano per essere caricate tra i calcinacci, sul camion. Così ci avvisarono ». Trattandosi di una famiglia decurionale, i Natta raccontavano, nelle proprie vicende, la storia di un'intera città, attraverso cinque secoli. Inventariato, il fondo è oggi all'Archivio di via Briantea, aperto alla consultazione. Ma quante altre storie abbiamo perso per sempre?

Gin Angri