Resistenza e Resistenti

Abstract intervento del 25 ottobre 2013 di Giuseppe Calzati

ROBERTO BATTAGLIA

Storia della Resistenza italiana

I edizione 1953, poi 1964, ristampata fino al 1979.

Einaudi

 

Roberto Battaglia

Nato a Roma nel 1913, e ivi morto nel 1963

Storico dell'arte, studi su Bernini e il Barocco romano

Rifiutava il fascismo più per un "fatto estetico" che per ragioni politiche.

La guerra lo porta su posizioni più consapevoli, vicino ad ambienti di Giustizia e Libertà-

Sfollato in Umbria, dopo l'8 settembre entra casualmente in contatto con i partigiani della zona e partecipa ad azioni armate.

 Ritornato a Roma è attivo nella Resistenza romana. Dopo la liberazione di Roma chiede ed ottiene di essere inviato al Nord oltre le linee del fronte. Viene paracadutato (per errore) in Garfagnana. Per alcuni mesi partecipa alla lotta di liberazione al comando della Divisione Garibaldi Lunense (una delle poche Garibaldi non dipendenti dal Pci).

 Di questa esperienza dà testimonianza nel libro "Un uomo, un partigiano", pubblicano alla fine del 1945 e ristampato da Il Mulino nel 2004.

Testo di grande valore anche sotto il profilo letterario.

Un'edizione ridotta della "Storia" uscì per gli Editori Riuniti, scritta dal Battaglia in collaborazione con Giuseppe Garritano con il titolo "Breve storia della Resistenza italiana".

La "Storia della Resistenza italiana", fu iniziata dal Battaglia nel 1948 su commissione dell'editore Einaudi in vista del Congresso di Venezia dell'INSMLI su "La Resistenza e la cultura italiana" che si tenne nel 1950. Il volume uscì nel 1953 e fu ampiamente rivisto dall'autore poco prima di morire nel 1963 in vista dell'edizione che poi uscirà nel '64.

Per Claudio Pavone rappresenta "la migliore storia generale della Resistenza". Si pone come fondamento della storiografia della Resistenza. E' un esempio anche di come si possa scrivere per il "popolo" conservando il rigore scientifico dello studioso.

 Per comprenderne il valore e i limiti occorre inserirla nel contesto politico-culturale del tempo.

In quegli anni non esistevano studi di storia contemporanea. La posizione degli storici accademici (come Cantimori) era ostile all'idea che si potesse fare storia su periodi vicini, e osteggiò qualsiasi rinnovamento. Solo nel 1957 si ebbero le prime due libere docenze in Storia contemporanea. Fu la generazione di nuovi storici, usciti per lo più dall'esperienza resistenziale e dall'antifascismo, iscritti quasi tutti al Pci, che si impegnò per dare un contributo alla conoscenza della storia più recente del nostro paese. Battaglia fu uno di questi. Era invalsa comunque l'idea che la storia della Resistenza potessero scriverla solo coloro che l'avevano fatta, gli storici erano visti con diffidenza. Roberto Battaglia poteva per lo meno coniugare l'esperienza di comandante partigiano con quella di storico: vantaggi e limiti impliciti, che comunque rendevano difficile un approccio critico (che non significa denigratorio o liquidatorio) alla Resistenza.

La storiografia resistenziale fino all'opera del Battaglia aveva conosciuto diverse fasi.

 

  1. Inizialmente cronache e memorie, con due tendenze prevalenti: il "culto degli eroi", le biografie dei martiri e l'attenzione all'aspetto militare della Resistenza. Impegno soprattutto delle sezioni Anpi.
  2. Questa "storia municipale" si conclude con l'uscita di tre opere di "svolta":

"Un popolo alla macchia" di Luigi Longo, 1947

"La riscossa" di Raffaele Cadorna, 1948

"Tutte le strade conducono a Roma" di Leo Valiani, 1947

 3. La nascita dell'INSMLI per impulso di Ferruccio Parri e l'uscita della rivista "Movimento di Liberazione Italiano" nel 1949 ebbero il merito di aver trasferito lo studio della Resistenza su un piano di rigore scientifico. Vi ebbero spazio giovani storici accanto a maestri di più antica data.

 

  1. La pubblicazione delle "Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana" nel 1952 (e poi quella delle "Lettere dei condannati a morte della resistenza europea" nel 1954) segnò una data fondamentale per la storiografia della Resistenza.

Senza la pubblicazione delle "Lettere" la Storia del Battaglia non avrebbe conosciuto quel successo di pubblico che invece conobbe.

 I criteri e i limiti del lavoro del Battaglia.

 Ci dice lo stesso Battaglia che operò seguendo questo percorso:

 

  1. reperimento e coordinamento di tutto il materiale già edito e già ricco di centinaia di voci bibliografiche;
  2. esame del materiale raccolto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che Battaglia conosceva in qualità di dirigente del "servizio partigiani";
  3. raccolta di testimonianze orali e scritte di protagoniste per singoli episodi e vicende.

 

Il suo lavoro fu facilitato dalla "pratica stessa della vita partigiana" come comandante GL e esponente del Pd'Azione nella Resistenza e poi per aver aderito nel 1948 al PCI.

 Furono esclusi gli archivi della Resistenza perché si era appena iniziato il lavoro di ordinamento (tranne che per i documenti della polemica preinsurrezionale delle "cinque lettere" inedite scambiate tra i partitit del CLNAI e che per la prima volta uscivano dall'archivio del CLN di Milano. Sarà poi il lavoro di Franco Catalano sul CLNAI (1955) a rendere note quasi integralmente le lettere in questione.

 Il tentativo di sintesi, quindi, precedeva in gran parte l'analisi.

Scrive il Battaglia: "E' veramente assai semplicistica quella concezione secondo la quale l'indagine analitica precede comunque in ogni caso la sintesi. La verità è che "analisi" e "sintesi" sono in rapporto dialettico e che l'una sollecita l'altra". "Il reperimento dei documenti sollecita la loro valutazione su un piano più vasto, così come il proporre una tematica di carattere generale stimola a sua volta l'indagine analitica, l'ulteriore approfondimento della materia".

Il rischio che paventava era quello che "nel campo della Resistenza la ricerca storica si frantumi o si sminuzzi all'infinito nell'eccesso della specializzazione, senza avere il coraggio di affrontare i temi più impegnativi o di interpretazione generale".

 Battaglia cita Marc Bloch di cui condivide le idee in merito alla ricerca: "Parecchie persone, e anche - a quanto pare - alcuni autori di manuali, si fanno un'idea singolarmente ingenua del modo di procedere del nostro lavoro. "Da principio - essi direbbero volentieri - ci sono i documenti. Lo storico li raccoglie, li legge, si sforza di valutarne l'autenticità e la veracità. Dopo di che, allora soltanto, li utilizza". C'è un solo guaio: nessuno storico procede così. Persino quando, per caso, s'immagina di farlo...Ogni ricerca storica presuppone, sin dai primi passi, una direzione di marcia. In principio, c'è lo spirito. Mai, in nessuna scienza, l'osservazione passiva - sempre nell'ipotesi che essa sia possibile - ha prodotto alcunché di fecondo...A un principiante non si può dare consiglio peggiore di quello di attendere, in un atteggiamento di apparente sottomissione, l'ispirazione dal documento. In tal modo, più di una ricerca volenterosa è stata condannata all'insuccesso o a restar insignificante". (in "La storiografia della Resistenza", in Battaglia, Risorgimento e Resistenza, pag.198-199).

Il libro del Battaglia può essere considerato come il testo di riferimento per chi vuole cominciare lo studio della Resistenza italiana.

 Battaglia si pone lo scopo di sottrarre la Resistenza dalla dimensione leggendaria, come fosse un evento straordinario, staccato dalle vicende quotidiane della storia d'Italia, per inserirlo nelle onde di lungo periodo della storia nazionale.

 

C'è un rapporto tra l'antifascismo italiano e la Resistenza; il vecchio antifascismo si nutre anche di quell'"antifascismo di guerra" che matura nella società italiana come avversione alla guerra voluta dal fascismo; nel corso della Resistenza, che non fu quindi solo fatto militare, si viene formando e affermando una nuova classe dirigente nazionale.

 

Dal libro del Battaglia si può individuare una scansione temporale delle diverse fasi della Resistenza:

 

  1. Fase ribellistica: dopo l'8 settembre e fino a tutto l'inverno 43

Conosce tre momenti:

  1. fino al dicembre 43: assestamento o chiarificazione; rischio dell'attesismo (contrari Parri e il Pci): azioni gappiste in città come rottura dell'apparente quiete urbana;
  2. da dicembre a gennaio 44: grandi rastrellamenti tedeschi; sbandamento e necessità di riorganizzare le forse su nuove basi;
  3. da gennaio a marzo: passaggio dalle forme primitive all'ascesa nella primavera del 44 (anche per effetto dei bandi repubblichini e dell'afflusso dei renitenti);
  1. Primavera 44: nuovi rastrellamenti. Sviluppo della resistenza non su un piano indifferenziato ma "per regioni". Processo di "militarizzazione": dalla "banda" e dal distaccamento (30 uomini) al battaglione e alla brigata. Si forma una embrionale gerarchia, si differenziano i compiti all'interno di ciascun reparto. Educazione e maturazione politica dei partigiani. Unificazione del Comando delle forze partigiane: nasce il CVL. Contrasti tra formazioni di diverso orientamento per il controllo del territorio.
  1. Estate 44: la grande stagione, l'offensiva partigiana, in città, l'esperienza delle zone libere e delle "repubbliche" partigiane, Montefiorino, la liberazione di Firenze.
  2. Autunno- L'offensiva tedesca dell'ottobre, con effetti devastanti in alcune zone. Inverno - 13 Novembre 44, proclama del gen. Alexander. La risposta del CVL "interpreta" le direttive di Alexander in senso"offensivo", puntando sull'iniziativa dal basso, la capacità "inventiva" dei partigiani, la mobilitazione popolare: lotta difensiva di lunga durata.. Pianurizzazione..
  3. Febbraio-marzo 45: periodo del suo maggior sviluppo "tecnico"
  4. L'insurrezione; aprile-maggio 45

 

 La Resistenza italiana nasce tardi rispetto al resto dell'Europa occupata dai tedeschi; tiene conto delle esperienze compiute altrove: in Spagna (organizzazione militare e commissari politici), in Francia ( i GAP), in Jugoslavia (zone libere).

La sua peculiarità è data dal nesso molto stretto tra direzione politica del movimento (CLNAI) e iniziativa militare. La lotta non è mai fine a se stessa (gesto dimostrativo) ma sempre in relazione con un obiettivo politico e di conquista del consenso: l'esperienza delle zone libere.

Rapporto tra spontaneità e organizzazione: fondamentale l'iniziativa dal basso, il protagonismo delle masse, la spinta unitaria che supera le divergenze del vertice, e fra i partiti coalizzati nel CLN.

La democrazia della Resistenza: attraverso l'azione dei partiti, dei commissari politici, del CLNAI, si viene articolando un'esperienza formativa che getta le basi per una concezione più avanzata della democrazia, diversa da quella prefascista.

 

La liberazione di Firenze ad opera delle formazioni partigiane e il ruolo del CLN toscano nel garantire il governo ordinato della città al momento dell'arrivo degli inglesi (a differenza che a Roma dove non vi fu insurrezione) dette forza all'idea che i CLN potessero e dovessero diventare gli organismi legittimi della nuova democrazia, del nuovo potere popolare democratico ( e non solo alleanza di partiti).

 

  • Egemonia della classe operaia, lotte sociali di massa (gli scioperi che scandiscono alcuni momenti salienti della resistenza: autunno 43, marzo 44, ancora novembre 44)
  • Ruolo determinante del Pci nel combattere il pericolo principale: l'attesismo che poteva affermarsi come unica condizione per resistere ai nazi-fascisti; e nel marginalizzare lo spontaneismo e il ribellismo dei primi momenti dentro l'alveo dell'esercito di popolo che divenne a un certo punto l'obiettivo su cui puntare: in questo era d'accordo anche Parri e questo fu elemento di forza e punto di scontro verso gli alleati (che volevano piccoli gruppi di sabotatori).
  • partecipazione dei contadini per la prima volta ad una guerra nazionale e patriottica,
  • unità politica della sinistra con l'affacciarsi della possibile ricostituzione di un partito unico della classe operaia (psi e pci);
  • ruolo dei cattolici nel rinnovamento dell'Italia (Telesio Olivelli, Tempi Nuovi),
  • rapporto tra comunisti e cattolici, tra Pci e Dc per rifondare l'Italia.
  • Attenzione agli intellettuali e al ruolo della cultura (poesia, canti, giornali delle formazioni)

 

 Limiti:

  •  
    • scarso rilievo viene dato alle diverse forme in cui si manifesta la Resistenza al di là della lotta armata;
    • troppo poco si dice della sorte dei militari italiani internati in Germania (IMI), mentre c'è il riconoscimento del sacrificio di Cefalonia e della Resistenza dei militari all'estero;
    • manca un'attenzione al ruolo delle donne, sia nella resistenza civile che come componenti delle formazioni partigiane, come staffette o combattenti;
    • non c'è una riflessione sulle stragi nazifasciste e sulle conseguenze che provocano nei rapporti tra popolazioni e partigiani;
    • così come manca una riflessione sulla violenza, soprattutto quella delle azioni gappiste in città;
    • viene sottovalutato il grado di consenso che si raccolse, soprattutto nelle città, intorno al fascismo saloino, l'ampiezza della "zona grigia" composta da chi non voleva stare né con gli uni né con gli altri: i "partigiani" del 25 aprile.

 

Vi furono polemiche anche aspre anche all'interno del Pci e dell'Anpi: ad esempio per il giudizio sulla mancata insurrezione di Roma.

 

 C'è in sintesi un'idea della Resistenza come fenomeno complesso ma al fondo compatto, lineare, "pulito", che contiene in sé i germi che poi frutteranno nel dopoguerra al di là della reazione conservatrice e dei tentativi di restaurazione.

Una Resistenza come esperienza fondativa dell'Italia repubblicana, in cui la dialettica politica era funzionale alla ricostruzione delle basi democratiche del paese.

E c'è la messa in evidenza del ruolo politico e militare svolto dal partito comunista come artefice principale di quella esperienza. Soprattutto viene valorizzato lo sforzo per costruire l'unità del fronte antifascista, condizione essenziale per garantire una direzione al movimento partigiano compatta e condivisa.

 

Lo sviluppo successivo degli studi sulla Resistenza, e le ricerche a carattere locale (ma non localistico) hanno arricchito enormemente le conoscenze e rendono oggi assai difficile un lavoro di sintesi come quello del Battaglia.

 

 ERNESTO RAGIONIERI :

 

"Contro i troppo facili unanimismi sulla Resistenza, come moto unicamente fondato sulla spontaneità popolare, sarà opportuno ribadire il particolare carattere di movimento di grandi e attive minoranze e di masse che esso assunse e della natura del rapporto fra queste minoranze e queste masse." (pag. 2376).

 

La resistenza ha costituito il punto di incontro tra i vecchi e più provati quadri dell'antifascismo e le masse che la guerra disastrosa aveva ridestato contro il fascismo.

 

Chi erano i 20-80 mila effettivi dell'estate del 44 diventati i 250 mila della liberazione?

 

La Resistenza rimase sempre un grande e attivo movimento di minoranze, il più vasto che la storia d'Italia abbia mai conosciuto, ma pur sempre minoranza. La stessa repubblica sociale riuscì a trovare margini di consenso significativi presso settori non trascurabili di borghesia urbana: esempio il relativo successo del prestito pubblico lanciato dai repubblichini nella città di Milano che dovette essere riconosciuto dai governi dell'Italia liberata.

Al momento della resa dei conti decisiva la Resistenza aveva assunto realmente la consistenza e le dimensioni di un popolo in armi. La cesura storica e morale rappresentata dalla Resistenza era destinata a non più richiudersi.

 

 

 

FRANCO CATALANO

 

Storia del CLNAI. Laterza, 1956

 

Nato a Fidenza nel 1915, morto a Novara nel 1990

Storico, professore si storia contemporanea all'Università di Milano e Modena.

 Catalano, in apertura del suo saggio, esprime il dubbio che si possa fare storia su eventi a noi molto vicini, ma egli si pone il compito di preparare il materiale per il futuro storico, riproducendo o almeno riassumendo il maggior numero possibile dei documenti del CLNAI, rari o difficilmente consultabili, specie se pubblicati su giornali clandestini

 La sua Storia del CLNAI, uscita nel 1956, è l'unica dedicata alla vita di questo organismo che ebbe una funzionale essenziale nella storia della Resistenza. Essa è anche una storia politica della Resistenza e offre gli elementi per comprendere sia il valore della elaborazione politica compiuta dai partiti, sia le ragioni delle affinità e delle differenze che marcheranno la vita politica del dopoguerra

Il suo merito principale è quello di aver fatto conoscere i documenti del CLNAI, fin ad allora sconosciuti (tranne che per il dibattito delle cinque lettere riferito dal Battaglia); il dibattito interno al CLNAI è visto in rapporto alle vicende politico-militari di quegli anni: governo del Sud, questione istituzionale: avversione alla monarchia, rapporti con gli Alleati, contrasto alla politica del fascismo di Salò; la conoscenza dei documenti ricostruisce la complessa realtà del dibattito tra le forze che componevano il CLNAI, tra quelle di sinistra e quelle moderate, tra il CLNAI e il CLN centrale e poi i governi Bonomi fino alla Liberazione; il dibattito che nell'inverno 44-45 viene suscitato dalla lettera del PdA e che riguarda le prospettive dei CLN dopo la Liberazione; i decreti di "governo" che vengono emanati e che riguardano la vita quotidiana e le prospettive (ad esempio per l'istituzione dei tribunali che dovranno giudicare i crimini fascisti e per l'epurazione dei fascisti dagli uffici pubblici, ecc.).

Risalta il ruolo autorevole di Ferruccio Parri (soprattutto nel volere un "esercito di popolo" e nel confronto con gli Alleati su un piano di parità), l'importanza della nascita del CVL e il necessario compromesso che porta al comando unico con Cadorna (Parri e Longo vice), il peso che ebbe Longo nel rispondere al proclama Alexander ribaltando in positivo le indicazioni alleate di freno dell'attività partigiana..

E' evidente la propensione dell'autore a valutare positivamente le posizioni e gli atti dei partiti della sinistra (Pci, Psiup, PdAzione) e ad attribuire alle forze moderate atteggiamenti attesisti e di freno al cambiamento, in sintonia con le posizioni della monarchia e di parte degli alleati (specie gli inglesi).

Il confronto politico fu vivace, sul filo della rottura, ricomposta con sforzi dialettici e sotto la spinta che veniva dal basso. Ma il contrasto ci fu tra progressisti e moderati: sia sulle modalità di condurre la lotta, sia sulle prospettive del dopo Liberazione.

Nota di Ernesto Ragionieri: mentre nel Risorgimento la frattura tra democratici e moderati fu netta, nella Resistenza la sinistra e i moderati contribuirono insieme alla lotta antifascista, portando ciascuna forza il proprio contributo peculiare.

Ma l'unità nella lotta non fu possibile proiettarla sui programmi e le prospettive del futuro.

 Insieme al libro di Catalano, a completare il quadro delle vicende anche umane della lotta clandestina, si consiglia la lettura del libro di Leo Valiani "Tutte le strade conducono a Roma" e quello di Alfredo Pizzoni "Alla guida del CLNAI", che di quell'organismo fu presidente sin dall'inizio.

Ad integrazione della lettura del testo del Catalano suggerisco due saggi apparsi nel volume:

"Italia 1943-1950 - La ricostruzione" a cura di Stuart J. Woolff (Laterza 1974);

 

Uno, di Guido Quazza: "La politica della Resistenza italiana" (pagg. 13-48);

l'altro dello stesso Catalano, "La "nuova" democrazia italiana dopo il 1945" (pagg. 87-153).

 

Inoltre sempre di Quazza, suggerisco il saggio "La politica dei comitati di liberazione" contenuto in "La Resistenza italiana" di G. Quazza edito da Giappicchelli nel 1966.

 


 

Abstract intervento del 8 novembre 2013 di Gerri Caldera 

GUIDO QUAZZA (1922/1996), azionista nel 1941, poi Comandante di Brigata. Studioso, docente, organizzatore culturale, militante, come Preside della facoltà di Magistero di Torino è stato il più lucido nell'indicare una via e un impianto metodologico corretto per la ricerca sulla Resistenza. I suoi due libri al riguardo portano sottotitoli significativi per l'avanzamento degli studi: il primo del 1966 indica "APPUNTI", il secondo del 1976 indica "IPOTESI". I due testi (specie il secondo)sono un autentico cantiere storico aperto: i problemi sono esposti scopertamente ma con attenzione critica, la consapevolezza della dialettica tra le forze in campo è costante, la densità multifattoriale nella ricerca della complessità dei problemi e delle possibili risposte è notevole. Il lavoro di Quazza è anche una solida prova etica di un ex partigiano che si mette alla prova con il suo presente storico e con tutte le ricerche svolte su quei venti mesi, su ciò che li precede e su ciò che li segue. In tutte le pagine Quazza segnala la necessità di approfondire la ricerca, e quei problemi così come quelle ipotesi di ricerca, allora non ancora sciolti, restano ancora oggi aperti. Anzi: su alcuni aspetti c'è stato un evidente arretramento: non c'è più quel clima attivo di ricerca; non c'è più un organico progetto e un centro propulsore universitario (come allora fu la Torino di Quazza, o meglio: la facoltà di MAGISTERO in quella Università). Negli ultimi venti anni ci siamo attardati col revisionismo, cercando risposte tecniche e politiche invece di impiantare nel vivo della tematica resistenziale delle serie ricerche che rispondessero da sole agli attacchi revisionistici. Sono passati settanta anni dalla Resistenza e ancora non abbiamo una risposta strutturata su che cosa è stata la Resistenza, o meglio: "Resistenza, Fascismo, Antifascismo, Italia, Europa" perché solo abbracciando tutte le tematiche e un periodo storico più ampio di quei venti mesi si può cercare di capire e dare finalmente una spiegazione a quell'evento. Ma Quazza, col suo costante impegno didattico, lo sapeva fin da allora: "L'IMPRESA DEGLI STORICI DIVENTA COSI' VASTA DA IMPEGNARE FORSE UN'INTERA GENERAZIONE".

 

 

LA RESISTENZA ITALIANA - appunti e documenti (1966)

  • Il saggio "La politica dei Comitati di Liberazione" è una relazione del 1965
  • "La guerra partigiana" è una lezione del 1963
  • "Un diario partigiano" è il diario di Quazza 1943/45

 

Nella premessa Quazza avverte che, dopo anni di "discrezione", è stato spinto alla scrittura dai suoi allievi, e indica il suo "sforzo di obbiettività" su una tematica condizionata da "apriorismi ideologico-politici e celebrativi", conscio che i suoi saggi possano in qualche punto apparire "provocatorii".

Infatti il passaggio della Resistenza nel novero dei momenti "eroici" della storia patria è, per lo storico, pericoloso, perché collocare un evento nella sfera del "mito" significa sottrarlo alla ricerca critica, alla necessità di ricercarne le distinzioni e le contraddizioni, cosa che può addirittura "spiacere ai protagonisti".

Insomma Quazza rifugge dalle letture politiche, celebrative, aprioristiche: a venti anni dalla liberazione è una posizione minoritaria, che ha però permesso a una schiera di giovani ricercatori di utilizzare la struttura universitaria di Torino e la sua proposta metodologicamente corretta, per aprire una nuova fase di studi.

LA POLITICA DEI COMITATI DI LIBERAZIONE è una sintetica storia critica dei CLN.

Diversa la vita e l'attività dei CLN del SUD, di ROMA, del NORD.

Quattro le fasi individuate della vita dei CLN:

  1. Autunno 1942/8 settembre 1943
  2. 8 settembre 1943/giugno 1944
  3. Giugno 1944/25 aprile 1945
  4. 25 aprile 1945/Costituente e referendum

Quazza stabilisce una precisa distinzione tra ANTIFASCISMO e RESISTENZA, tra l'azione dei vari CLN, e tra i CLN (partitici e di vertice) e la base partigiana delle "bande" prima, delle "brigate" poi. Grandi contrasti tra i partiti dei CLN (anche sotto forma di "guerra ideologica"), grande autonomia dei partigiani combattenti e delle masse (gli scioperi operai avvennero sempre al di fuori del controllo dei CLN).

 

LA GUERRA PARTIGIANA (1963) ribadisce la distinzione tra antifascismo e Resistenza. I venti mesi di lotta vengono suddivisi in quattro periodi:

  • Settembre 1943/maggio 1944: dopo l'8 settembre agli storici antifascisti si aggiungono forze nuove, "spontanee", che vengono dall'esercito, dalla politica, dagli attivisti di città. È ancora una guerra di bande nel centro-nord, senza coordinamento.
  • Febbraio-marzo 1944: le file dei resistenti combattenti si allargano per l'arrivo dei renitenti a Salò, per la maggior parte privi di orientamento politico. Inizia un vero coordinamento delle azioni, ma anche i primi rastrellamenti che provocano seri danni ai resistenti
  • Giugno-dicembre 1944: si può parlare pienamente di Resistenza armata militare coordinata, con la conseguente necessità di un comando centrale (anche per i rapporti formali da intrattenere con gli alleati). Nasce il CVL e le "bande" diventano "Brigate" a pieno titolo. Nascono anche le BRIGATE NERE con compiti solo antipartigiani. Comunque anche e nonostante il CVL e i comandi di zona, l'iniziativa bellica è sempre dal basso, è saldamente nelle mai dei combattenti, con i pregi ed i difetti conseguenti: solo dove i resistenti riescono a mantenere sempre l'iniziativa, con la costante della mobilità e dell'offensiva, si ottengono risultati: sabotaggi, controsabotaggi, "colpi". Dove prevale l'attendismo, la stanzialità, la rigidità difensiva, è normale che prevalga la potenza di fuoco ed il numero degli avversari, che sono costretti a vere e proprie offensive su larga scala.
  • Autunno-inverno 1944: i grandi rastrellamenti, l'inverno, il proclama Alexander (13 novembre) portano ad una crisi del movimento resistente, che si riprenderà solo a primavera. Comunque su 31 divisioni (27 tedesche e 4 fasciste)sul territorio italiano, ben 14 sono state costantemente impegnate contro i partigiani.

IL TESTO SI CONCLUDE CON UNA PARTE DEDICATA a "problemi di metodo", in cui Quazza riflette sulla letteratura partigiana, in un primo tempo condensata sulla memorialistica, sullo stile agiografico o istituzionale, che solo la nuova leva di laureandi in storia ha superato. Quazza indica la necessità di STUDI LOCALI ma non localistici, cioè fatti con una problematica unitaria e con sistemi uniformi di indagine e comparazione.

 

 

RESISTENZA E STORIA D'ITALIA - Problemi e ipotesi di ricerca (1976)

INTRODUZIONE. Per Quazza lo spartiacque è stato il 1968: per la società, per gli storici, per l'Italia.

Individua tre fasi di ricerca sulla Resistenza.

1. 1945/55: la ricerca si occupa solo dei venti mesi della lotta armata, ed è costituita da MEMORIALISTICA (coi suoi contenuti di retorica, conformismo ecc) o da storiografia DI PARTITO (con la creazione dei concetti di "SECONDO RISORGIMENTO", che per Quazza serve ad esorcizzare ed anestetizzare l'estremismo della sinistra, o di "RIVOLUZIONE MANCATA/TRADITA" che usa la giovane sinistra a scopo polemico contro la sinistra istituzionalizzata).

2. 1955/65: si affermano esigenze metodologiche, la necessità di accurate indagini documentarie e l'attenzione al quadro internazionale. Protagonisti sono giovani storici che hanno il necessario distacco critico non essendo stati protagonisti delle vicende che studiano. La funzione della Università di Torino in questa direzione è fondamentale.

3. 1965/68: la contestazione, le lotte operaie, il Vietnam cambiano le cose. Si afferma un nuovo impegno, una nuova etica, che impongono anche un impianto didattico della ricerca di tipo finalmente complesso. Si individua la necessità di studiare la relazione tra ANTIFASCISMO, RESISTENZA, FASCISMO, SOCIETA', cioè la Resistenza nel processo storico italiano e internazionale, nelle sue continuità e discontinuità. Una visione di "LUNGA DURATA" (Quazza indica il periodo 1919/47) che necessita uno sforzo collettivo, un lavoro di équipe.

Il libro si compone di 10 capitoli che vanno da "antifascismo e fascismo nel nodo delle origini" a "la Repubblica moderata". La ipotesi di Quazza verte sulla "continuità tra l'Italia prefascista, fascista e postfascista", con l'avvertenza che quella continuità "è una prospettiva e non una legge assoluta", e che lo scopo della ricerca è quello di "cercare il posto della Resistenza nella 'lunga durata' del processo storico italiano". La "continuità" dell'Italia postfascista poggia sulla sconfitta politica del "vento del nord" resistenziale che avrebbe potuto essere il motore di una democrazia dal basso, cioè la sconfitta di quella partecipazione non delegata costruita nelle bande partigiane come autonomia e democrazia diretta. Nella sconfitta politica della Resistenza grande parte viene assegnata al "compromesso storico" di Togliatti vidimato dalla svolta di Salerno. Quazza rifiuta anche la tesi del consenso "di massa" al fascismo preferendo la tesi di un consenso "estorto o subìto" e sostiene (contro Emilio Gentile) la non autonomia (soggettiva - cioè ideologica - e oggettiva) del fascismo. Nella storia del ventennio vede diversi e dialetticamente intrecciati tipi di "antifascismo" (politico, esistenziale, anche fascista e capitalista), che saranno dirompenti e conflittuali alla caduta del regime. Nell'intrecciarsi di processi sociali e decisioni politiche, considera esiziale la accettazione da parte della sinistra dell'autonomia spirituale della chiesa cattolica ed il suo privilegio di orientare le masse, visto che il magistero della chiesa è il cemento reazionario del mondo cattolico. Anche le conquiste della Resistenza (la Repubblica e la Costituzione) vengono vagliate criticamente, così come la scelta della sinistra nel dopoguerra di accettare la ideologia della "ricostruzione" e della "solidarietà nazionale", del liberismo e del produttivismo, che portarono per Quazza a una totale restaurazione di classe.

 

Questi temi ci portano giustamente dentro l'oggi. La Resistenza è ancora un terreno minato perché i problemi di quei venti mesi sono quelli di oggi: il rapporto tra interesse di classe e interesse "generale", tra progetto di cambiamento e conservazione, tra politica dei partiti e movimenti della società, tra nord e sud, tra organizzazione e spontaneità. Se c'è stata continuità (ancora da capire) tra Italia prefascista, fascista, postfascista, possiamo fare l'ipotesi che certe categorie siano presenti ancora oggi. E se c'è stata continuità "nell'Italia di oggi ... resta aperta la tentazione, e la possibilità, di ritornare a una politica di repressione e di violenza dall'alto. In questo senso, la Resistenza non ha sconfitto definitivamente il fascismo" (Quazza, Introduzione a "Fascismo e società italiana", 1973). Allora bisogna volgersi indietro per capire quel tessuto connettivo civile, culturale e politico, unico al mondo, che ha unito le varie "resistenze" , oggi sterilizzate dalla ritualità e da una manutenzione istituzionale che tratta l'antifascismo come un residuato bellico da disinnescare. Tutto ciò ha portato alla perdita di senso di quelle esperienze diverse, di quella "alleanza di forze eterogenee" (Quazza) che sinteticamente chiamiamo "Resistenza". Invece dobbiamo ricostruire il contesto, la trama continua di quel periodo, l'orizzonte di senso e il rapporto che unì e cucì emergenze diverse e persino contraddittorie, con il solo scopo che sempre ha la ricerca storica: confrontarsi con il presente. E capire magari le aspettative di chi lottò venti mesi contro un nemico che pochi mesi dopo gli portò via tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA?

 

CARR: sei lezioni sulla storia, Einaudi 1966

BLOCH: apologia della storia, Einaudi 1950

TRAVERSO: il passato: istruzioni per l'uso, Ombre corte 2006

LUZZATTO (a cura di): prima lezione di metodo storico, Laterza 2010

DE LUNA: la passione e la ragione, Nuova Italia 2001

HALBWACHS: la memoria collettiva, Unicopli 1987

LUZZATTO: la crisi dell'antifascismo, Einaudi 2004

FOCARDI: la guerra della memoria, Laterza 2005

BIDUSSA: dopo l'ultimo testimone, Einaudi 2009

BERMANI (a cura di): introduzione alla storia orale, Odradek 1999

AGOSTI, COLOMBINI (a cura di): resistenza e autobiografia della nazione, Seb 27, 2012

 

 

 

ADA GOBETTI: diario partigiano, Einaudi 1956

ARTOM: diari di un partigiano ebreo, Bollati Boringhieri 2008

 

BORGOMANERI: due inverni, un'estate e la rossa primavera, Angeli 1985

Abstract intervento del 29 novembre 2013 di Patrizia Di Giuseppe

Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 1991.

CHI È CLAUDIO PAVONE

Claudio Pavone, dall'autunno del 1943 prende parte alla Resistenza. Tale esperienza, oltre ad incidere sulla sua coscienza civile e sulla sua visione politica, si rivela determinante anche per la sua attività di ricercatore scientifico nel campo storico sia dal punto di vista dei campi prescelti sia da quello dell'orizzonte personale attraverso il quale analizzarli.

Al termine della guerra assume l'incarico di funzionario degli archivi di Stato. Rilevante il suo ruolo nella sistemazione dell'Archivio Centrale dello Stato e nella progettazione e direzione della Guida generale degli Archivi di Stato. Gli archivi si riveleranno il luogo ideale per i suoi interessi e le sue passioni, consentendogli di venire, quotidianamente, a contatto con la gran parte dei documenti della, allora recentissima, storia italiana del fascismo, della seconda guerra mondiale e dell'antifascismo.

Dal 1975 inizia la sua attività universitaria prima come professore incaricato e, poi, dal 1980 al 1991 come professore associato presso l'Università di Pisa. Nel 2007 è stato insignito del Premio Internazionale Ignazio Silone per la saggistica.

Pavone ha pubblicato, per Bollati Boringhieri, Alle Origini della Repubblica, analisi storica del percorso che, dalla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943, porterà alla scelta popolare della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946.

Nel 1991 ha dato alle stampe Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, una corposa analisi delle origini, delle motivazioni prossime e remote e dei rispettivi intenti alla base dello scontro tra la Resistenza e i fascisti della Repubblica Sociale Italiana. L'opera è celebre per aver accolto nel mondo accademico la denominazione di guerra civile per gli anni 1943-1945, fino ad allora limitata quasi esclusivamente alla saggistica di matrice neofascista.

GENESI DELL'OPERA

Il volume nasce su suggerimento di Ferruccio Parri, che invita lo storico a concretizzare anche in Italia uno studio simile a quello di Henri Michel e Boris Mirkine-Guetzevitch sulla Resistenza francese, Les idées politiques et sociales de la Resistànce (1954). Dopo molti anni e molto materiale accumulato (confluito in gran parte nel saggio del 1974 La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini) il collega Nicola Tranfaglia lo incita ad ampliare la ricerca in vista di una pubblicazione per Feltrinelli,che però non avverrà. In seguito, durante un ciclo di seminari tenuti al Centro "Piero Gobetti" di Torino, Franco Sbarberi e Norberto Bobbio invitano Pavone a parlare di "Politica e morale nella Resistenza". La relazione di Pavone viene redatta in base alla grande mole di materiale raccolto fin dall'inizio e - dopo essere stata trascritta - viene da lui progressivamente estesa fino a divenire il saggio pubblicato nel 1991.

IL SENSO DELL'OPERA

Claudio Pavone, nell'opera, distingue fra "Resistenza in senso forte", la guerra partigiana combattuta da una rilevante minoranza, militarmente e politicamente, in modo particolare al Nord, e "Resistenza in senso ampio e traslato", ossia un fenomeno generale ma in parte contraddittorio assunto da tutte le forze politiche antifasciste anche con obiettivi e aspirazioni molto diverse tra loro.

L'autore afferma che tra l'8 settembre del 1943, data dell'armistizio di Cassibile, ed il 2 maggio del 1945, data della Resa di Caserta, si combattono in Italia tre guerre contro tre figure di nemici ben precise e differenti: la guerra di liberazione nazionale, la guerra civile e la guerra di classe..

La guerra di liberazione nazionale o guerra patriottica fu combattuta dai partigiani contro lo "straniero invasore". Sotto questo profilo Pavone rileva che invasori erano sia gli anglo-americani sia i tedeschi, ma che, con l'eccezione degli italiani aderenti alla RSI, i primi vengono percepiti come liberatori ed i secondi come invasori. In particolare, il nemico di questa guerra non è percepito come un semplice "straniero", ma anche, con una precisa connotazione politico-ideologica, come il "nazista", e questo - secondo Pavone - «ci porta già sul terreno della guerra civile, come grande guerra civile europea».

La guerra civile fu combattuta dai partigiani contro i fascisti, ovvero italiani contro italiani.

La guerra di classe viene considerata un aspetto della guerra civile (operai contro padronato). Pavone, però, afferma che «non tutti gli antifascisti erano socialmente proletari, né tutti erano ideologicamente disposti a far coincidere fascismo ed oppressione di classe».

L''autore sottolinea, nel complesso, il valore positivo della Resistenza e la sua importanza decisiva per la riconquista della dignità nazionale e per una vera rinascita della patria. A questo si aggiunge la critica delle posizioni polemiche verso una Resistenza in cui i comunisti svolsero un ruolo decisivo, e distingue tra "zona grigia", intesa come maggioranza indistinta e succube della popolazione, "resistenza passiva" e "resistenza civile. In questo senso il termine "guerra civile", intesa, sulla scorta di Franco Venturi, come la sola guerra che per il suo alto e drammatico valore etico meriti di essere combattuta, nella prospettiva dell'autore serve soprattutto ad accentuare il valore morale della scelta antifascista, a sottolineare l'importanza di quella lotta e della sua posta in gioco per il futuro dell'Italia.

 

Capitolo Primo: La scelta

Lo sfascio

L'armistizio dell'8 settembre del 1943 e il successivo sfascio delle strutture militari e civili del paese hanno come conseguenza una ampio arco di reazioni negli italiani che vanno dall'apertura al nuovo alla corsa al rifugio conosciuto e sicuro.

Non molto sappiamo ancora degli italiani che hanno combattuto la Seconda guerra mondiale, fra il 1940 e il 1943. La stanchezza di una vita militare lunga, dura e mal motivata porta la gran massa dei soldati alla convinzione che armistizio, fine della guerra, ritorno a casa siano termini equivalenti. In queste tre aspirazioni si condensa il desiderio e la necessità di non più combattere.

In molte testimonianze viene descritto il passaggio dalla gioia alla delusione immediatamente successivo all'8 settembre: la mancata coincidenza fra l'abbattimento di Mussolini e l'armistizio crea la sensazione che, se non è finita la guerra, non è nemmeno finito il fascismo.

I partiti antifascisti in via di ricostituzione durante i quarantacinque giorni, portano avanti, con sfumature diverse, la richiesta di arrivare a una conclusione della guerra. Alla richiesta di pace si viene con sempre maggiore insistenza abbinando, quale passaggio ineliminabile, la richiesta di guerra nei confronti dei tedeschi.

Il mancato incontro, nelle giornate dell'armistizio, fra esercito e paese sarà uno dei primi dati di fatto con i quali dovranno misurarsi le forze resistenziali.

Lo sfascio dell'8 settembre sintetizza gli effetti di un evento troppo a lungo atteso e di un evento improvviso. Due erano le certezze: l'onnipotenza degli Alleati e quella dell'invincibilità dei tedeschi. La prima avrebbe dovuto, con il suo rapido e totale dispiegamento, impedire alla seconda di far pesare tutta la sua incontenibile possanza, risparmiando agli italiani lo strazio patito da tanti popoli d'Europa.

Il senso di essere stati abbandonati da qualsiasi autorità che pur avrebbe dovuto proteggerli si diffonde presto fra gli italiani, in modo particolare in tutti i gradi dell'esercito, dai soldati agli ufficiali. La dissoluzione del Regio Esercito era, in realtà, già iniziata dallo sbarco in Sicilia, ma con l'armistizio il fenomeno si aggrava. Nessun soldato o graduato in fuga dall'esercito si considera un disertore.

I giovani che non hanno cessato di credere nella guerra fascista sono investiti da uno smarrimento senza speranze: molti di loro opteranno per la RSI.

Il quadro desolante dell'Italia nei giorni dell'armistizio si completa citando i saccheggi a danni di depositi civili e soprattutto militari. L'intenzione di sottrarre quei beni ai tedeschi o le elementari necessità di sopravvivenza sono spesso invocate come copertura di atti che appaiono<< una manifestazione clamorosa della generale anarchia e confusione>>.

Il senso della sconfitta ricomparirà nei fascisti della RSI quale stimolo alle velleità di rivincita, e in parte nei resistenti, come esigenza di ridare un volto nuovo della identità nazionale dopo la duplice sconfitta.

L'affresco deve essere arricchito con il ricordo delle manifestazioni di solidarietà e di aiuto che gran parte della popolazione offre agli sbandati e ai fuggiaschi. Accanto ai primi barlumi di resistenza attiva, in quei giorni sono largamente gettati i semi della<< resistenza passiva>>, intesa come creazione di un clima e di un ambiente favorevoli alla prima.

La fraternizzazione fra civili e militari che non era riuscita sotto il segno equivoco di Badoglio, riusce ora sotto quello della comune disgrazia. Non ci si stringe sotto all'istituzione Regio esercito, ma si viene in soccorso di italiani piombati nell'estremo pericolo.

L'interpretazione ottimistica del disordine come occasione di libertà e quella pessimistica che genera invece smarrimento e desiderio di restaurazione sono i due modi di reagire al vuoto istituzionale venutosi a creare, che può infatti produrre esaltazione, oppure sgomento e senso di abbandono.

Nel dissolversi delle istituzioni militari e civili e nell'emergere della solidarietà, la classe operaia, almeno quella delle fabbriche principali, è il gruppo sociale che rivela i maggiori tratti di coesione interna. Ufficiali e soldati fuggono disperdendosi, ma gli operai tendono a rimanere uniti e a trarre da questa loro unione la spinta ad uscire dalla passività e dalla rabbia dell'impotenza.

Una scelta chiara e difficile

Il venir meno della presenza statale può essere avvertito in modo duplice: con un senso di smarrimento o come un'occasione di libertà.

Quando le truppe tedesche di occupazione e quando i fascisti creano la Repubblica sociale, quando cioè il vuoto istituzionale viene in qualche modo riempito da un diverso sistema di autorità, la scelta da compiere si fa più dura e drammatica, perché la spontanea, umana solidarietà dei primi giorni non risulta più sufficiente.

La scelta resistenziale è un atto di libertà, assunto nella solitudine della coscienza, che si concretizza come disobbedienza contro la forza e disobbedienza di massa.

In molti vi è la<< percezione improvvisa (o l'illusione) che ... [si possa] agire per cambiare in meglio la società e che, inoltre, ... [si possa unirsi] ad altre persone della stessa opinione>> e che tutto ciò è << piacevole e anzi inebriante>> ( A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1983, p. 98).

E' diffuso un desiderio di riscatto-autopunizione. Le motivazioni individuali sono molteplici: insopportabilità di un mondo divenuto teatro di ferocia, ribellione contro i soprusi piccoli o grandi, istinto di autodifesa, desiderio di vendicare un congiunto caduto, spirito di avventura, amore incosciente del rischio, tradizioni familiari, antifascismo vecchio e nuovo, amor di patria, odio di classe.

Alcuni eluderanno una scelta di campo precisa come il sottotenente Giorgio Chiesura che si consegna ai tedeschi, altri passeranno da una parte all'altra più di una volta.

Per i fascisti il ricordo dell'8 settembre rimarrà sempre come un incubo. Una scelta particolarmente drastica, ideologica e combattentistica insieme, è quella dei fascisti che si posero direttamente al servizio dei tedeschi.

Mentre i resistenti degli altri paesi, nel momento della loro scelta iniziale, scommettono sia sull'esito sia sulla durata, i resistenti italiani rischiano solo sulla durata ma questo non significa non mettere a repentaglio la propria vita. Proprio il fatto di essere arrivati ultimi, con un fardello tanto pesante sulle spalle, rende i resistenti italiani particolarmente sensibili ai problemi di un futuro che non si limiti alla disfatta tedesca.

Il tradimento

Tutte le parti in campo si scambiano l'accusa di tradimento. Le accuse di tradimento diventano insieme drastiche e polivalenti; ma nello stesso tempo il <<buon uso del tradimento>> tornava ad esercitare il suo fascino. Tutte le parti in campo considerano il re e Badoglio traditori per diversi motivi. Molti considerano Mussolini il vero traditore soprattutto nei confronti del popolo italiano.

Tutti gli italiani hanno prestato due giuramenti: uno al re, l'altro al duce. Costretti ora a scegliere fra l'un giuramento e l'altro, lo schietto atteggiamento resistenziale è di tagliare il nodo e non scegliere né uno né l'altro, sganciando da ogni precostituito impaccio istituzionale e da ogni vincolo ad personam l'alto problema della fedeltà a se stessi.

Il giuramento al re molto spesso si palesa come più forte rispetto a quello verso il duce, in modo particolare nell'esercito: vi è era una più forte interiorizzazione del senso della patria-stato, impersonati dal re, di fronte a quello del governo- regime, impersonati dal duce.

Un manifesto dei fascisti, invece, rivolto ai soldati afferma che il tradimento del re li aveva sciolti da ogni obbligo di fedeltà.

Non tutti i gruppi partigiani impongono il giuramento ai loro membri (sì le Garibaldi, quasi sempre non gli azionisti-giellisti).

Un altro tema è quello del tradimento all'interno dei gruppi resistenziali: la paura di tradire sotto le torture.

CAPITOLO SECONDO: L'eredità della guerra fascista.

Desiderio e timore di una sconfitta

<<Si può con sicurezza affermare che in Italia i soli che hanno motivi per desiderare la guerra sono gli antifascisti perché soltanto con la guerra potranno liberarsi dall'odiato regime>> .

Non legati al rispetto delle cautele, di tradizioni e di obbedienze (come i socialisti e i comunisti o quelli del partito popolare) GL e il Partito d'Azione costituisco i gruppi antifascisti che, coerentemente all'impostazione data da Rosselli nel 1939, senza pentimento e con orgogliosa nettezza includono, nel passaggio dal pacifismo all'intervento attivo contro il fascismo, la prospettiva della sconfitta dell'Italia. Il partito antifascista che subisce un massimo travaglio fra il settembre del 1939 e il giugno del 1940 è certamente il Partito Comunista a causa dell'accordo russo - tedesco.

La maggior parte degli italiani avrebbe voluto fare la guerra il meno possibile, comunque lontano da casa, e lasciando che al resto provvedessero i potenti alleati tedeschi.

Di fronte alla guerra fascista, solo piccole minoranze di cattolici, fra i quali emerge la figura di don Primo Mazzolari, conducono con radicale energia il discorso fino al nodo del rapporto fra violenza bellica e il quinto comandamento.

Le insicure motivazioni dei combattenti

La massa dei combattenti si sente gettata in un'impresa bellica di dimensioni, di intensità e significato fuori della propria diretta capacità non solo di controllo, ma anche soltanto di comprensione.

L'impatto con la realtà della guerra ha esiti contraddittori. Nei motivati può, in un primo momento, portare a negare ostinatamente la realtà stessa, poi a sentirsi traditi dagli uomini o dal fato. Nei non motivati, o flebilmente motivati il contraccolpo è quello di sentirsi vittime, sentimento che conduce a una posizione protottesistica o protoresistenziale.

Gli antifascisti della vecchia guardia manifestano in genere di fronte ai combattenti della guerra 1940-1943 un atteggiamento in cui prevale un ovvio pragmatismo (l'importante è che vengano a noi), il rispetto per le sofferenze patite, il riconoscimento del valore dispiegato, la soddisfazione nel constatare tanta capacità di riscatto, tanta<< profonda ribellione morale maturata specialmente nel corso della guerra>>.

Il ripudio del regio esercito

La condanna etico-politica della guerra fascista ha, nei resistenti, come corollario, un distacco aspro e sprezzante da quello che ne era stato lo strumento, il regio esercito, inteso sia come istituzione e classe dirigente militare sia come stile di vita. Le testimonianze di questo ripudio si sintetizzano nel lessico: esercito disciolto, esercito morto. Le motivazioni della condanna del regio esercito ruotano attorno a pochi punti fondamentali: tradimento degli ufficiali, il costume diffuso (arroganza degli ufficiali, senso della gerarchia, burocrazia). L'orgoglio di essere tecnicamente più bravi degli ufficiali di carriera diverrà un punto di forza di molti comandanti partigiani. I rapporti con gli ufficiali di carriera e di complemento rimangono sempre piuttosto tesi.

Le formazioni maggiori, GL e Garibaldi, sarebbero venute elaborando verso gli ufficiali atteggiamenti notevolmente duttili, ispirati insieme a opportunità politica e a fiducia nella nuova solidarietà che la lotta partigiana è in grado di far sorgere e sviluppare, ricreando al proprio interno più schiette gerarchie di valore. Nelle GL non vi è preconcetta diffidenza sociale verso gli ufficiali, ma vi è spesso un massimo di diffidenza morale, temperata peraltro dalla propensione a riconoscere un certo ruolo, nei casi migliori, alla professionalità della tecnica militare. Nelle brigate Garibaldi, invece, su un massimo di diffidenza sociale viene sovrapponendosi, più per disciplina di partito che per intima convinzione, la linea che chiama a raccolta chiunque mostri sincera volontà di combattere e quindi anche gli ufficiali.

Nella Resistenza un corpo dell'esercito - gli alpini - godono di una considerazione positiva (soprattutto nelle fila di GL e nel ricordo di Nuto Revelli). Hitler li definisce <<i peggiori nemici>>. Vi sono, però, alpini, come quelli della Monterosa, che aderiscono a Salò.

Dopo l'8 settembre l'identità dei paracadutisti diventa contraddittoria: da una parte sono uno dei reparti più saldi del CVL; dall'altra, appellandosi al loro ruolo nella guerra, rifiutano ogni seria partecipazione morale alla nuova esperienza.

L'esercito della RSI, invece, ha un non facile rapporto con la tradizione dell'esercito italiano. Apparentemente i dirigenti della nuova repubblica operano una drastica rottura, ma, nella realtà, non riescono del tutto a sganciarsi da quella istituzione. Nel comunicato del 27 settembre 1943, dopo la prima riunione del rinato governo fascista si legge <<Le forze terrestri, marittime, aeree vengono rispettivamente inquadrate nella milizia, nella marina e nell'aeronautica dello Stato fascista repubblicano. Il reclutamento avviene per coscrizione e volontarietà>>. (Ricci e Pavolini sono per il volontariato, Graziani per la coscrizione e il reclutamento nei campi di lavoro in Germania). In realtà si crea un esercito di forze di polizia private che obbediscono solo vagamente all'autorità centrale.

Le cose non procedono meglio nell'esercito che il Regno del sud si sforza di mettere in piedi. La bassa efficienza, lo scarso spirito combattivo, la diffusa renitenza alla leva, le diserzioni, lo scarso afflusso di volontari mostrano il distacco morale esistente.

 

CAPITOLO TERZO: Le vie di una nuova istituzionalizzazione

La militarizzazione e i suoi limiti

La banda partigiana, nata da una iniziale spinta di rivolta antiistituzionale, evolve verso un gruppo sociale retto da un ordinamento. La critica alla militarizzazione s'incontra con quella alla burocratizzazione e con le insofferenze combattentistiche contro i politici (anche all'interno dell'organizzazione comunista). Nelle selezione dei quadri si manifesta il cosi detto <<microcosmo di democrazia diretta>> ovvero si richiede l'elezione dei capi e la loro revocabilità (cosa non sempre facile). Il pericolo è quello che il capo partigiano eletto scivoli verso la figura del capo di tipo carismatico, in quanto riconosciuto in possesso di qualità considerate straordinarie, ma, paradossalmente è proprio l'elezione democratica che contiene il potere carismatico del capo. E' per questo che tanto spesso i partigiani sono restii all'essere privati dei loro capi"naturali", nei quali vedono una felice sintesi di potere carismatico e di potere democratico, di evidenza dei fatti e di rispetto di norme che essi stessi si sono date.

I partigiani, all'inizio, nutrono un odio per le divise del regio esercito, in particolare, per la divisa in genere; successivamente, però, sorge la necessità di un abbigliamento con tratti comuni al fine di avere un segno distintivo delle identità del gruppo. Permane, comunque, un fantasioso e allegro amore per le varianti individuali, rivelatore di una profonda ripugnanza verso l'"uniforme". Il Comando generale del CVL, nel <<regolamento interno>>, emanato dopo l'unificazione (18 aprile 1945), prescrive sia l'uso del distintivo e del bracciale sia la giubba a vento e i pantaloni lunghi tipo sciatore. La divisa porta con sé l'adozione di gradi riconoscibili o meglio incarichi di comando.

In quasi tutte le espressioni usate per tratteggiare la disciplina propria dei partigiani è presente la dialettica fra la necessità che essa sia ferma e indiscussa e il bisogno avvertito con uguale forza che si basi sull'autoconvincimento. <<Non vogliamo certamente una disciplina da caserma borghese, ma neppure una anarchia>> (8 novembre 1944 - circolare). E' indicativo che si riveli dura a morire una certa diffidenza verso la polizia partigiana: se ne sente la necessità ma spesso appare vicina alla figura del carabiniere.

Particolarmente delicato è il problema del <<soldo>> al partigiano: vi è diffidenza ma anche la consapevolezza della sua necessità a fini di autofinanziamento. C'è un dibattito se sia il caso di differenziarla a seconda degli incarichi (comandante/semplice partigiano). Si vuole comunque fugare l'ombra del partigiano come mercenario: egli deve rimanere un volontario per pura scelta etica e politica.

Il processo di militarizzazione si intreccia con i caratteri localistici delle bande. Rispetto alle spinte centralizzatrici della militarizzazione il reclutamento locale agisce da contrappeso Si creano fra gli uomini vincoli di solidarietà stretti, sottolineati dall'uso del dialetto, e nasce una maggiore propensione a combattere per la difesa di quella che era la propria terra. La piccola patria locale la si sente minacciata in modo più immediato di quanto lo fosse la grande patria, L'Italia e le motivazioni cui bisogna ispirarsi nell'impugnare le armi non sempre sono immediatamente trasferibili sul piano dei grandi ideali di redenzione politica e umana (esempio Quattro giornate di Napoli - Cippo parco di Capodimonte<<Caduti in armi per la difesa del focolare. Addì 29 settembre 1943>>). La Resistenza è attraversata da questa dicotomia: da una parte la solidità garantita dal radicamento in loco, morale e materiale; dall'altra i rischi di un restringimento dell'orizzonte ideale e politico. I partigiani locali si dimostrano particolarmente sensibili al rischio di rappresaglie contro i focolari che addolciscono la loro esistenza. Ne nasce attesismo e un eccesso di atteggiamento difensivo. Non vanno dimenticati quei paesani senza paese che sono i meridionali bloccati nel nord: fra di essi prevale la tendenza ad aggrupparsi secondo le zone di origine, come nel Regio esercito.

Il problema dell'incremento delle bande subisce una svolta quando comincia l'afflusso dei giovani che hanno voluto sottrarsi alle chiamate alle armi, disposte dal governo fascista (bandi Graziani). Gli anziani sospettano di trovarsi di fronte a gente che concepisce il partigianato come mero rifugio. Ad un certo punto l'afflusso di uomini supera la disponibilità delle armi e dei mezzi di sussistenza. Nei quadri dirigenti si manifestano al riguardo due tendenze: la prima è quella che non si può rimandare indietro nessuno, la seconda è quella del meglio pochi ma buoni e ben armati.

Alla costruzione di una piramide gerarchica sempre più complessa non corrisponde ad una effettiva e regolare organizzazione. Le tendenza delle bande e brigate, territorialmente e politicamente differenziate, è di unirsi in una specie di forma federativa piuttosto che in rigidi schemi di apparati gerarchici.

Il rapporto con i partiti

Al capo partigiano più o meno carismatico avrebbe cioè potuto presentarsi la tentazione di scivolare verso qualche forma di <<rassismo>>. I legami stabiliti con i partiti rappresentano un contrappeso a questa tendenza, come del resto alle spinte localistiche. Questi legami rendono più omogenee al loro interno le singole formazioni, differenziandole dalle altre di diverso colore, ma nello stesso tempo operano come fattore di unità perché non solo trasmettono alla base la politica unitaria del CLN, ma alimentano la convinzione che sia l'impegno politico in quanto tale a costituire il cemento sostanziale fra i partigiani. Il radicamento dei partiti nella società italiana del dopoguerra ha certo uno dei suoi presupposti in questa loro presenza residenziale.

Va riconosciuto un margine di casualità nella <<politicizzazione>> di un certo numero di formazioni. Finanziamento, accesso ai lanci alleati, assistenza varia, riconoscimento da parte del CLN, oltre il prestigio che si erano saputi conquistare, sono gli strumenti dei quali si avvalsero i partiti per condurre nella propria orbita le bande. I partiti più impegnati nella lotta armata - Partito comunista e Partito d'Azione - non dedicano particolare attenzione ai rapporti con le <<loro>> formazioni. Militarizzazione e politicizzazione non sempre procedono insieme. I due partiti principali sono per primi concordi nel dire e ribadire che la politicizzazione sotto la loro egida non significa adesione ai partiti stessi. Il riconoscimento della libertà di opinione all'interno delle formazioni politicamente qualificate è uno dei modi in cui si manifesta questo rapporto con i partiti. Figura centrale è quella del commissario politico. Pur dopo incertezze e oscillazioni egli verrà riconosciuto di grado pari al comandante. Come canali di politicizzazione i commissari politici rispecchiano i punti di vista dei partiti dai quali emanano: ma vengono anche atteggiandosi a rappresentanti della politica unitaria del CLN. All'estremo opposto del settarismo, o soltanto della fedeltà alle proprie più profonde convinzioni, la figura del commissario si annacqua fino a stingere su quella di una specie di cappellano laico o di <<assistente sociale>>, così come quella del cappellano può a sua volta sfumare in quella del commissario. Il commissario rischia inoltre di assumere la veste di un tuttofare, troppo assorbito dalle funzioni di amministratore, dispensiere, magazziniere.

La diffidenza verso il CLN non può ricondursi solo alla aprioristica repulsa della politica da parte dei militari <<puri>>. I <<balbettanti CLN>> erano visti come infetti dalla<< pericolosissima cancrena>> dell'attesismo. I CLN locali godono in qualche caso di una considerazione maggiore di quelli di livello provinciale, in quanto sgravano i partigiani dei compiti civili.

Questo tipo di politicizzazione e i suoi limiti hanno un banco di prova nell'unificazione delle varie formazioni. Non si allude ai conati iniziali e nemmeno all'unificazione, rimasta prevalentemente formale, avvenuta fin dal 19-22 giugno 1944 con la costituzione del Comando generale del CVL, bensì a quella, che avrebbe voluto essere sostanziale decisa dal CLNAI il 29 marzo 1945. All'inizio i comunisti recalcitrano di fronte a questa prospettiva, ma la crescita delle Brigate Garibaldi e la svolta di Salerno portano Togliatti ad auspicare<< un'organizzazione armata unica, con un comando militare unico>> (Cadorna comandante generale, LUIGI longo e Ferruccio Parri vicecomandanti). Solo lo Psiup mostra diffuso scetticismo circa i reali risultati di un'operazione che mira ormai più a dosare le forze fra i partiti in vista del dopo Liberazione che a creare un efficacie strumento di lotta. Riserve mentale dei partiti e riserve morali ed emotive dei partigiani punteggiano in realtà il processo di unificazione.

La stampa resistenziale svolge una funzione di primo piano nel rapporto fra partiti e i civili. La stampa mira a formare nuovi quadri e svolgere una funzione pedagogica nei confronti sia dei partigiani sia della massa della popolazione.

CAPITOLO QUARTO: la guerra patriottica

Alla conquista dell'identità nazionale

Chi è stato sconfitto nella guerra fascista combattuta fra il 1940 e il 1943? Il Fascismo? Lo Stato italiano?

Per i fascisti la sconfitta del Fascismo e la sconfitta dell'Italia coincidono. Gli antifascisti distinguono ovviamente il fascismo dall'Italia: ma i più pensosi fra di loro avvertono che un ribaltamento di fronte non è sufficiente a fugare tutte le ombre che si sono addensate sull'unità nazionale. Sembra agli antifascisti che per legittimare la nuova guerra occorra farsi carico fino in fondo alla sconfitta patita ad opera degli angloamericani e dei sovietici prima, dei tedeschi poi; che sia indispensabile sganciare la difficile ripresa da ogni collegamento con la tradizione nazionalistica italiana, esasperata dal fascismo. L'atteggiamento più radicale e nello stesso tempo più fecondo è quello che dava per scontata la finis Italiae come autonomo soggetto statale. Dopo l'8 settembre gli italiani non li può vedere nessuno perché <<bollati come infidi da vecchi e nuovi alleati>> e perché hanno combattuto contro tutti. Nella gerarchia dei Lager gli italiani si ritrovano superiori solo agli ebrei.

Rivelazioni, riscoperte, riutilizzazioni di antichi sottofondi culturali, continuità con segno immutato si intrecciano in questo sforzo volto a ricostruire un'idea e un senso della patria.

Nella coscienza dei resistenti la guerra contro i tedeschi-nazisti non ha bisogno di legittimazioni estrinseche che si rifacessero a criteri di legalità incarnati nelle istituzioni del vecchio Stato. Sono queste istituzioni che devono rilegittimarsi conducendo bene la guerra dalla parte giusta.

L'identità nazionale deve essere ricostituita scrollandosi di dosso il secolare destino che ha fatto dell'Italia soltanto il palcoscenico dei grandi drammi storici recitati come protagonisti di altri popoli. Si ricerca nel passato episodi significativi: la Resistenza trae dal Risorgimento forza e insieme ambiguità, come conferma l'abusata espressione di <<secondo Risorgimento>>. Più o meno tutte le posizioni politiche e ideologiche dello schieramento resistenziale e gli stessi fascisti, si scelgono il proprio pezzo di Risorgimento cui riferirsi.

I due movimenti maggiori prendono il nome (Garibaldi/d'Azione) da filoni risorgimentali rimasti soccombenti nella lotta per l'egemonia del nuovo Stato, di fronte alla soluzione liberal-moderata-monarchica. La memoria del Risorgimento sostiene gli internati militari nei Lager tedeschi

Naturalmente anche i fascisti, benchè impacciati dai camerati tedeschi, coltivano il terreno risorgimentale (effigie di Mazzini sui loro francobolli, eredi della Repubblica romana del 1849).

Il fenomeno del contendersi il passato è anche delle altre nazioni europee in lotta.

Nei nomi di battaglia, invece, il Risorgimento è quasi assente.

La guerra 1915-1918 è un tramite fra il Risorgimento e certe motivazioni della nuova guerra antitedesca.

I tradizionali alleati

L'ostilità e la disistima degli inglesi contro gli italiani vengono alimentati nei tre anni di guerra (1940-1943). Forte è lo scetticismo circa la capacità di ripresa di un popolo tanto disastrato. L'impressione che Churchill trae dai primi approcci compiuti a Lisbona, per l'armistizio, dal diplomatico D'Aieta, era negativa (<<preghiera che noi si salvi l'Italia dai tedeschi e da se stessa, a al più presto possibile>>.

Nei venti mesi dell'occupazione tedesca, però, gli alleati non lesinano appelli e riconoscimenti alla combattività e al valore degli italiani, anche se negli ambienti antifascisti e resistenziali essi appaiono spesso troppo parchi. Questi appelli hanno talvolta un carattere chiaramente strumentale, talaltra esprimono invece sincera meraviglia per le insospettate doti dimostrate dagli italiani.

Man mano che la Resistenza viene riconosciuta dagli Alleati - il modo migliore per controllarla - si accentuano le manifestazioni di insofferenza verso la loro presenza e verso il modo in cui essi forniscono il loro aiuto, del quale, però, si è consapevoli di non poterne fare a meno.

L'intera Resistenza europea <<manifestava a un tempo gratitudine e inquietudine, una fedeltà che resiste alle peggiori prove e una volontà di autodeterminazione, cioè di rivolta>> (Henri Michel). Dagli Alleati non si può prescindere ma occorre mantenere di fronte a essi autonomia e dignità, differenziandosi dall'atteggiamento dei fascisti verso i tedeschi.

Abbastanza diffuse sono le manifestazioni di delusione e di ironia per la lentezza dell'avanzata degli Alleati in Italia.

A prescindere dalla diversità delle rispettive linee politiche che erano a loro ignote o mal note, i partigiani colgono le differenze fra gli inglesi e gli americani con i quali sono a contatto diretto, a tutto vantaggio degli americani, la cui maggiore generosità viene attestata anche dalle notizie che filtrano dall'Italia liberata. Probabilmente tra i giovani agisce il diffuso<< mito americano>> nonché gli influssi della propaganda fascista accanitisi contro il <<popolo dei cinque pasti>>.

I prigionieri inglesi ed americani che, fuggiti dai campi di concentramento, si uniscono alle bande partigiane costituiscono spesso un canale originale per la ricostituzione di schietti legami con i <<tradizionali alleati>>. Le popolazioni rurali, spesso mettendo a repentaglio vita e averi, ai prigionieri danno ricetto ed assistenza.

E' evidente la distanza che corre fra gli atteggiamenti verso gli Alleati della base e i rapporti militari, politici e diplomatici fra gli Stati.

Nella prima dichiarazione pubblica di politica estera fatta dal governo di unità nazionale costituitosi a Salerno vengono condannate le <<invasioni>> (Francia, Grecia, Jugoslavia, Russi, Albania) e si dichiara di voler<< adottare una politica di amichevole cooperazione per riparare le distruzioni della guerra ed eseguire accurate e rigorose indagini per precisare torti e violenze fasciste e adottare le più severe sanzioni pei colpevoli>>. Nella dichiarazione si tace di confini e colonie: mancano nette prese di posizione anticolonialistiche.

La guerra <<patriottica resistenziale>>, nonostante le difficoltà che deve affrontare sul confine orientale, non è una guerra per i confini. Nella riconquista dell'identità nazionale è infatti implicito il principio del rispetto della volontà di tutti i popoli, che non avrebbero più dovuto essere <<mercanteggiati nella bisca della diplomazia>>.

Il nemico ritrovato

I richiami al Risorgimento, alla guerra del 1915 - 1918, ai tradizionali alleati convergono nella figura del tedesco come nemico e come invasore, che questa volta non era stato fermato sul Piave, ma era arrivato fino a Napoli. Da tracotante alleato, il tedesco torna a essere il vero nemico, ben più reale di quanto lo fossero stati francesi, inglesi, americani e russi. Le qualifiche negative da attribuire al nemico tedesco, elaborate da una lunga tradizione, conducono a fare del tedesco un <<nemico assoluto>>, un <<mostro disumano>>.

Il richiamo all'eterna barbarie tedesca era comparso già nel periodo della non belligeranza, ed è presente in tutta la Resistenza Europea. In Italia la propaganda fascista ribattezza i tedeschi come <<Germanici>>, ma durante la Resistenza torna a dominare la parola tedeschi, affiancata da quella più cupa di teutoni.

Il soldato tedesco aveva spesso fatto nascere nel malmesso e incerto soldato italiano ammirazione e timidezza. Nei resistenti è invece presente la soddisfazione di essersi liberati da ogni senso di inferiorità: anche i tedeschi scappano e hanno paura della morte. Ma i tedeschi, tanto più vengono ridotti a dimensione umana, tanto più suscitano il problema della loro capacità di redimersi. E'convinzione che la Germania debba subire una punizione più dura di quella dell'Italia perché più grandi sono stati i suoi misfatti e più ostinata la sua volontà nel perseguirli. Un atteggiamento di questo tipo si intreccia con la convinzione, largamente diffusa, che fra gli scopi della lotta ci sia quello di far addolcire, al confronto, il trattamento riserbato all'Italia.

E' vivo il desiderio che anche la Germania riesca a scuotere il giogo della propria catastrofe finale, in modo tale da accelerare la fine della guerra; molti intuiscono che la distinzione tra popolo e regime, invocata per gli italiani, non può essere a priori negata ai tedeschi. Diffusa è la sincera repugnanza ad ammettere che esista un popolo irrimediabilmente infetto e dannato.

Vi è poi il problema dell'odio da portare al nemico. Per alcuni è un impulso irrefrenabile (soprattutto reduci dal campo di sterminio), per altri un dato di fatto (Ada Gobetti). Fra pietà l'è morta e il riconoscere nel nemico tedesco un umano oggetto di pietà, c'è tutta una vasta gamma di sentimenti e di comportamenti.

CAPITO QUINTO: la guerra civile

Una definizione controversa

L'interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica Sociale italiana come guerra civile ha incontrato da parte degli antifascisti ostilità e reticenze, tanto che l'espressione ha finito con l'essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l'hanno provocatoriamente agitata contro i vincitori.

Affermare che la Resistenza è anche guerra civile non significa andare alla ricerca di coloro che l'abbiano vissuta esclusivamente sotto quel profilo; al contrario significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lotta - patriottica, civile, di classe - abbiamo spesso convissuto negli stessi soggetti individuali e collettivi.

Subito dopo la Liberazione il tabù della guerra civile è stato meno forte. Me già nel 1944 in Togliatti (Opere) la parola non compare mai poiché all'esigenza di accreditare il proprio partito a livello nazionale si affiancava la propensione a occultare il dato elementare che anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani.

I fascisti avevano sempre chiamato<< antinazionali>> i loro avversari e questi li hanno ricambiati espellendoli in idea - almeno quelli della RSI - dalla storia dell'Italia, se non addirittura dell'umanità.

La qualifica di servi dello straniero dato ai fascisti non è sufficiente a cancellare in loro quella di italiani. Lo stesso ragionamento vale per quegli italiani che accettano passivamente la RSI, prestando obbedienza anche se con riserve.

In nesso fra guerra civile e rivoluzione va a sua volta ascritto fra i motivi che hanno spinto a escludere fra il 1943 e il 1945 sia stata combattuta una guerra civile. Da una parte la rivoluzione può venire connotata in senso positivo ed escatologico, così che la guerra civile appaia al confronto, nel giudizio avalutativo, sinonimo soltanto di disordine e di orrore. Da un'altra parte la guerra civile appare invece come lo sbocco immancabile della rivoluzione così da trascinarsi dietro le connotazioni, positive o negative, che della rivoluzione vengono date. E poiché la Resistenza italiana non è stata da nessuno rivendicata come rivoluzione, il suo nesso con la guerra civile è rimasto nella memoria soltanto come uno scampato pericolo.

Il prevalere della formula guerra, o movimento, di liberazione nazionale rispetto a quella di guerra civile occulta dunque la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani.

La ricomparsa dei fascisti

Perché il fascismo rinasce dopo il 25 luglio?

Per il senso di frustrazione che serpeggia già prima del 25 luglio del 1943. Dopo l'8 settembre a questo si aggiunge l'occasione, che i tedeschi offrono, di dimostrare di essere ancora vivi come fascisti. Alla domanda come è potuto accadere il crollo, si risponde che era colpa dei traditori, con i quali era giunto il momento di fare i conti.

La cerchia dei traditori da punire va dai membri del Gran Consiglio che hanno sautorato Mussolini, a tutti coloro che hanno mutilato le vittorie fasciste, all'intero popolo italiano.

I due elementi che contrassegnano la storia fascista - tendenze elitarie e populismo demagogico - rivelano nella RSI le loro contraddizioni. Vi è in molti l'idea che non è stato il fascismo a rovinare l'Italia, bensì l'Italia a rovinare il fascismo, di cui era indegna.

Molti fascisti tiepidi mostrano dopo l'8 settembre la fiamma della militanza, così come molti prigionieri di guerra italiani in mano alleata. Non deve stupire, se subito dopo l'8 settembre, i fascisti ricompaiono qua e là spontaneamente, senza attendere la resurrezione di Mussolini e la costituzione del governo della RSI.

Molti dirigenti tedeschi dubitano circa l'opportunità di dar vita ad un governo neofascista. E' Hitler che, valutando il disastroso effetto politico la riduzione di un senior partner dell'Asse a terra di conquista, concede la costituzione della Repubblica sociale.

I fascisti dal canto loro hanno sempre preteso di legittimare la loro repubblica come un provvidenziale ammortizzatore posto fra il popolo italiano e gli inferociti camerati tedeschi. In realtà la RSI non avrebbe potuto durare un solo giorno senza il sostegno tedesco.

Nelle prime settimane dopo l'8 settembre vi è il fenomeno di sinceri desideri di pacificazione. Alcuni di questi atteggiamenti fascisti assumono il tono di un appello generazionale contro i vecchi che hanno rovinato l'Italia. Le spinte alla pacificazione danno luogo in alcune località a qualche accordo (Sant'Arcangelo di Romagna, Forlì). Il desiderio di tendersi le braccia al di sopra delle baionette straniere, per sincero che potesse essere in alcuni fascisti, è dunque destinata a cedere il passo alla spinta più profonda a vendicarsi degli italiani antifascisti all'ombra di quelle stesse baionette.

I fascisti, che hanno sempre riservata a se stessi l'azione che crea il disordine, sono in pari tempo convinti che la massa degli uomini aspiri, più di ogni altra cosa, all'ordine. Il disordine come strumento dell'ordine, carattere di fondo del fascismo, finisce per raggiungere su questa strada risultati parossistici La Repubblica sociale sarà infatti corsa da molteplici polizie, corpi armati, milizie, bande raccogliticce in cerca di avventura e di bottino, che agivano senza coordinamento e spesso in concorrenza fra loro.

E' il Congresso di Verona, inauguratosi il 14 novembre, che segna la svolta decisiva verso la guerra civile. La creazione delle brigate nere, annunciata da Pavolini il 26 luglio 1944, a un anno dal 25 luglio, sulla base di un decreto di Mussolini del 30 giugno precedente, costituisce il punto culminante dell'impegno fascista nella guerra civile. Minimo e abortito contributo alla guerra civile sono i rarissimi tentativi fascisti di compiere qualche azione a sud della linea gotica.

Sia il governo regio sia il governo fascista, evidentemente d'intesa con i loro rispettivi alleati, evitano, di massima, di schierare sul fronte gli uni contro gli altri i propri reparti regolari. E'questa una conferma che la guerra civile non viene combattuta tra Regno del Sud e Repubblica Sociale italiana, ma che essa sia un conflitto tra i fascisti e gli antifascisti, sull'unico territorio che li vede presenti entrambi politicamente e militarmente, in una partita che assume un significato coinvolgente l'intero popolo italiano.

Alla guerra civile parteciparono anche le truppe regolari di Graziani, in particolare le quattro divisioni allestite in Germania. Parri attribuirà proprio all'arrivo dalla Germania della divisioni di Graziani il <<carattere di vera guerra civile>> assunto dalla lotta.

Non è facile per i fascisti della RSI riconoscere l'esistenza stessa del partigianato: al di là dell'intento propagandistico, l'uso di espressioni quali<< banditi>>, <<sicari al soldo del nemico>>, manifesta il forte disagio di fronte a un fenomeno imprevisto, che si cerca di esorcizzare attribuendone la nascita e lo sviluppo di agenti esterni.

Forse l'odio tutto particolare che i fascisti in seguito riserveranno alla figura di Parri deriva proprio dalla loro incapacità di spiegarsi come un uomo dall'apparenza tanto fragile, discreto e senza il culto della violenza, abbia potuto alla fine risultare più forte di loro.

L'eliminazione dei ribelli non può non diventare un obiettivo essenziale.

I fascisti della RSI devono assolutamente dimostrare che se non erano in grado di combattere seriamente contro il nemico esterno, potevano per lo meno, proprio in quanto fascisti, schiacciare quello interno.

La normalizzazione operata dalla RSI non va intesa come reale ristabilimento di un ordine fondato su un sufficiente tasso di certezza del diritto, bensì come ottenuta acquiescenza ai comandi di un'autorità sopravvenuta a riempire il pauroso vuoto creatori dopo l'8 settembre. Per reagire a questo clima di "deprimente" normalizzazione, l'<<Unità>> afferma drasticamente che <<tra occupanti e occupati non v'è possibilità alcuna di normalizzazione>>.

La disobbedienza militare non viene affiancata da una altrettanto estesa disobbedienza civile. E' notevole l'accanimento della propaganda fascista contro gli <<scettici, attendisti, filoinglesi>>, come li chiama un manifesto del 20 aprile 1944.

Gli antifascisti di fronte alla guerra civile

Nell'ambiente antifascista e resistenziale l'attribuzione del carattere di guerra civile a quanto sta accadendo talvolta è negata, ma più spesso è riconosciuta con inflessioni varie.

La guerra civile fra fascisti e antifascisti può essere vista come la ricapitolazione e lo svolgimento finale, sotto la cappa dell'occupazione tedesca, di un conflitto apertosi nel 1919-1922.

I resistenti, dopo l'8 settembre, concedono ancora ai fascisti la possibilità di redimersi, così come comprendono chi ha risposto di malavoglia ai bandi Graziani o ha compiuto atti di sottomissione coatta. I rapporti con i fascisti della RSI, che hanno palesato la loro fisionomia, non può essere che di lotta; ai<< fascisti antitedeschi>> non va impedito di combattere i tedeschi.

E' proprio durante la guerra civile che il termine fascista oltrepassa la sfera politica e storica, finendo con il designare un tipo umano negativamente connotato sotto i profili pubblici e privati.

Nella stampa resistenziale circola, a proposito della natura del fascismo, un insieme di opinioni non ben amalgamate nemmeno negli scritti comunisti che possono fruire di un più rigido schema di riferimento ideologico: vi confluiscono riflessioni, tentativi di indagine, constatazioni di fatto, repulse morali, generalizzazioni argomentate o estremamente rapide, giudizi sulle forze sociali ed economiche che hanno fatto nascere e sostenuto il regime, denunce di responsabilità degli individui, di classi, di ceti o dell'intera comunità nazionale, desiderio infine di andare oltre e insieme di non seppellire prematuramente un passato che era così arduo da far passare.

I fascisti repubblicani polemizzano con le epurazioni avviate nel Regno del Sud.

Le due parti impegnate nella guerra civile si contendono anche il passato della nazione e innanzitutto il Risorgimento: le diverse interpretazioni del processo formativo dell'unità nazionale sono utilizzate come strumento di lotta politica. La RSI non può che portare alle estreme conseguenze la visione di un Risorgimento mirante essenzialmente alla creazione di una nazione-Stato compatta e forte, magari con qualche sprezzo di populismo, ma comunque non indebolita da ubbie e veleni liberaldemocratici.

Il carattere di guerra civile è stato sempre negato al Risorgimento, anche negli episodi come la spedizione dei Mille, che vedono combattere solo italiani contro italiani. E' un processo analogo a quello già descritto a proposito della<< guerra di liberazione nazionale>>, che porta ad annichilire la nazionalità stessa dei compatrioti militanti nel campo avverso.

Il nemico principale: i fascisti e i tedeschi?

Una volta ridefinita, accanto alla figura del nemico tedesco, quella del nemico fascista, non sempre è sufficiente, per tenerle insieme, la categoria unificante del <<nazifascista>>; il fascista viene considerato un servo del tedesco non occasionale, ma moralmente e politicamente consonante con il padrone.

L'affermazione, idealmente netta e ripetuta, che si combatte il tedesco solo in quanto nazista e l'italiano solo in quanto fascista non riesce a contenere e a controllare tutte le emozioni e tutti i dubbi che suscita la guerra civile in rapporto a quella allo straniero.

La guerra civile viene in genere qualificata come <<fratricida>> da entrambe le parti per accrescerne l'orrore e far gravare sul nemico, additandone come l'unico responsabile, una più infamante condanna. Vi sono famiglie attraversate proprio al loro interno da scelte contrapposte.

Di fatto a scorrere i documenti resistenziali più diretti e spontanei sembra prevalere l'odio contro i fascisti rispetto a quello contro i tedeschi. Emerge, anche, un'avversione intrinseca e profonda contro coloro che, italiani, hanno condotto l'Italia alla rovina.

Dividere gli avversari è sempre stata una buona tattica, in pace come in guerra. Anche i resistenti, a volte, provano a esercitarla, ma la loro azione incontra due fortissimi ostacoli. Il primo risiede nel carattere quasi fatalmente velleitario che essa assume, non appena esce dalla mera constatazione della disistima dei tedeschi verso i frustati fascisti. L'altro e più sostanziale ostacolo è nel fatto che l'unica forma praticabile di questi tentativi di divisione consiste nello stipulare accordi separati con l'uno o l'altro nemico. Su questo punto va registrata una doppia realtà. Fermissimi sono sempre i divieti posti dalle direzioni politiche e dai Comandi partigiani centrali a scendere su questo terreno. Alla base di questo fermo atteggiamento dei vertici, vi è, oltre che l'intransigenza politica e morale, la convinzione che gli accordi mettono sempre i partigiani in condizioni di inferiorità. A livello locale, accano ai fermi atteggiamenti di intransigenza, vanno registrati alcuni casi di accordi sia con i tedeschi sia con i fascisti. Stanchezza, scoramento, ingenuità, leggerezza, paura, difficoltà di rapporti con le popolazioni timorose delle rappresaglie, scarsa consapevolezza politica, rivalità fra bande di diverso colore: queste motivazioni e altre analoghe possono essere rintracciate, oltra ai casi di deliberato tradimento, negli accordi stipulati o solo tentati. Chi stipula gli accordi è in genere convinto che si tratti di una necessità puramente locale, che lascia intatte le ragioni sostanziali della lotta.

I cattolici e la guerra civile

La guerra civile pose alla Chiesa cattolica e alle sue varie componenti problemi più ardui di quelli connessi alla guerra patriottica. La guerra rivela impraticabile la linea del<< tranquillo lealismo>> verso il governo seguita nei quarantacinque giorni; complica il processo di quella che è stata chiamata <<la successione>>; rende drammatico quello che per la maggior parte dei cattolici italiani non ha mai costituito un serio problema di coscienza, l'esser cioè insieme cattolici e fascisti; svela, a un livello ancora più alto, il conflitto fra il rispetto del quinto comandamento e l'uccidere in guerra, ora che bisogna uccidere altri italiani. Mentre nelle guerre normali ognuno, quando torna a casa, può essere assolto per aver compiuto il proprio dovere, la guerra civile apre un campo problematico che non è facile per le autorità ecclesiastiche occupare con direttive chiare ed univoche.

E' bene procedere ad alcune distinzioni, che non si esauriscono in quella fra alto e basso clero (molto enfatizzata dalla storiografia di sinistra e minimizzata dalla storiografia di ispirazione cattolica). In realtà l'eccezionalità della guerra civile fa emergere la molteplicità dei piani e le contraddizioni in cui si muove la Chiesa. Le contraddizioni si addensano attorno ad una fondamentale: stare al di sopra delle parti e insieme schierarsi. La distinzione che trova particolare difficoltà ad essere mediata è dunque quella fra religione come fatto istituzionale, amministrato, ma non in modo esclusivo, dai vertici della gerarchia, e religione come fatto di coscienza. All'interno di entrambi i livelli si verifica in effetti lo sdoppiamento fra lo stare super partes e lo schierarsi. Al primo livello lo sdoppiamento genera una prudenza diplomatica rotta talvolta dalla compromissione con, o dalla opposizione contro, le autorità nazifasciste; al secondo livello pone in luce il contrasto fra la pietà religiosa che accomuna amici e nemici, vincitori e vinti, e l'impegno attivo a fianco degli amici contro i nemici, in virtù di una ispirazione religiosa contro la prepotenza e l'ingiustizia. L'attività pastorale può prendere la forma di diplomatica cautela o peggio la sottomissione-collaborazione al potere costituito.

La Chiesa si trova di fronte, nelle sue molteplici articolazioni presenti sul territorio della RSI, agli stessi problemi dei rapporti fra legalità, politica, morale con i quali si misurano tutti gli italiani viventi in quelle regioni.

Le direttive generali della Segreteria di Stato sono quelle di mantenere<< un'attitudine di superiore imparzialità di fronte al conflitto armato>>, evitando <<manifestazioni che potessero apparire o come pronunciamento puramente politico o come preferenze verso una delle parti belligeranti. Si ripetono quelle <<deprecazioni degli atti>< senza<< denuncia dei colpevoli>> che hanno caratterizzato l'atteggiamento del magistero ecclesiastico di fronte al fascismo e alla guerra. Di questa ambiguità i fascisti intransigenti per primi si risentono; gli antifascisti se ne adontano; i più si smarriscono o, all'opposto, si sentono autorizzati ad acquietare senza traumi eccessivi la propria coscienza, delegandone ancora una volta il governo alla gerarchia. Le condanne indifferenziate pronunciate dal clero si caricano talvolta di maggiore intensità quando vittime di soprusi e violenze nazifasciste sono i sacerdoti. Sembra in questi casi affiorare come la richiesta di un trattamento speciale, istituzionalmente garantito, per chi esercita il ministero ecclesiastico.

L'abitudine a trattare pariteticamente da istituzione a istituzione con i potenti è così radicata che i contatti con le autorità tedesche e fasciste devono per altro verso apparire ovvi alle autorità ecclesiastiche. I comportamenti oscillanti e i messaggi cifrati trovano un riscontro nei giudizi, discordanti nello spazio e nel tempo, che si leggono nei rapporti delle autorità fasciste.

C'era un punto che interessa molto alle autorità fasciste della RSI: quello del riconoscimento della Repubblica da parte della Santa Sede. Il riconoscimento non verrà mai concesso nonostante le pressioni ricevute (la minaccia di creare una chiesa nazionale repubblichina o di disconoscere i Patti Lateranensi).

Si può cogliere in molti fascisti un sincero stupore sia per l'ingratitudine di cui il clero e i cattolici in genere davano prova nei loro confronti sia per quella determinata dal fatto che si hanno gli stessi nemici (settarismo massonico, bolscevismo, ateismo, anarchismo).

La piccola minoranza di ecclesiastici che prende aperta posizione a favore della RSI possiamo pensare che lo fa proprio perché ricettiva di questo tipo di appelli.

Alcuni vescovi inviano di propria iniziativa - oltre ai volontari - cappellani nelle formazioni militari della RSI, brigate nere comprese, sia <<per cercare di fare un po' di bene anche tra i lupi>>, sia per <<stringere utilmente relazioni coi comandanti delle Piazze per potersene servire poi a tempo opportuno>>.

Ai rimproveri di ingratitudine rivolti al clero si uniscono le denunce dell'atteggiamento assenteista e attendista del clero, frequenti nei rapporti delle autorità periferiche della RSI.

Anche l'autorizzazione concessa da Pio XII nell'ottobre 1944, su richiesta di Schuster, all'assistenza religiosa ai partigiani e le varie forme di presenza dei cappellani nelle formazioni resistenziali rispondono insieme a un'esigenza religiosa e a una di presenza politico ideologica, atta a contrastare l'influenza di dottrine pericolose per la Chiesa. Uno speculare intreccio di motivazioni agisce nelle bande che accettano o richiedono i cappellani: sincero rispetto per la coscienza religiosa e dimostrazione di avere il clero dalla propria parte, sia di fronte ai fascisti sia nei confronti degli schemi politici all'interno della Resistenza (unità con i democristiani).